Ai tempi di Internet, ci si ammala di FoMO
Dall’Homo Sapiens al… FoMO sapiens. Ma cos’è la FoMO (Fear Of Missing Out, che letteralmente starebbe per paura di “perdersi qualcosa”)? È una forma di ansia sociale, contraddistinta dal desiderio insopprimibile di essere in contatto, con gli altri e con ciò che fanno gli altri; è la paura di essere esclusi da un evento, o da un contesto sociale. È una malattia post-moderna, potremmo dire, che trova nella possibilità di essere sempre connessi, nelle nuove tecnologie e nei social il suo campo di esistenza.
La FoMO è la paura di essere tagliati fuori, il chiodo fisso che gli altri stiano facendo qualcosa di più interessante.
FoMO, insomma, è la paura di non partecipare, non essere presente, al momento giusto e al posto giusto. E proprio l’irruzione sulla scena umana dei social network ha intensificato questa paura, perché ha decuplicato tanto la nostra voracità di contatti take away con l’altro (un utente medio guarda lo smartphone circa 150 volte al giorno, una volta ogni 6 minuti) quanto il numero di opportunità sociali a disposizione.
L’assenza, nostra e dell’altro, è tollerata soltanto se imposta, e non subita. La FoMO è una dimostrazione lampante di questo assunto
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La connessione, l’iper-interazione di tipo compulsivo, viaggiano in due sensi distinti e complementari: sono ispirate dall’esterno, che bussa alla nostra porta, ma al tempo stesso sono cercate con ostinazione da noi stessi, come se avessimo una sorta di horror vacui, il timor panico dell’isolamento.
Se non è possibile concepire la propria assenza come una possibilità, non è possibile concepire nemmeno l’assenza altrui; la distanza va abbattuta.
L’acronimo FoMO è stato coniato nel 2011 e indicizzato in maniera più sistematica come disordine psicologico nel 2014. Secondo la definizione di Andrew Przybylski, dell’Università di Oxford, la FoMO è la forza che guida l’uso dei social media. I livelli di FoMO sono più alti negli adolescenti, ma sono influenzati in maniera trasversale da circostanze sociali: maggiore è il senso d’insoddisfazione per la propria vita, maggiore è la presenza di FoMO.
La letteratura affilia spesso la definizione della FoMO alla descrizione di una forma di solitudine, ma semmai, è fobia della solitudine. Maggiore è la quantità di manifestazioni di socialità a disposizione del soggetto (o dovremmo dire dell’utente?), maggiore sembra essere la percezione di potenziale esclusione dai flussi relazionali generati. Più che dalla solitudine, la FoMO è generata dalla moltitudine.
Approdano alla mente termini di grande diffusione nella seconda metà del secolo scorso, come alienazione, incomunicabilità. Eppure, questa moderna morfologia della sofferenza umana sembra rimandare a un modo nuovo di essere in relazione d’isolamento. E allora, qual è il cuore pulsante in seno alla FoMO? Il timore di veder smarrita una forma d’ancoraggio all’umano? La paura di non essere parte di un ritualismo sociale, collettivo, che coinvolge tutti meno che l’escluso?
L’era social ha mischiato i piani di “realtà” e “realtà virtuale”, al punto che oggi una distinzione di fatto è aleatoria e persino pretestuosa. Questa commistione di livelli contribuisce a una moltiplicazione delle possibilità di scelta, nonché, di esposizione forzata a tutte quelle cui si è rinunciato: non posso fare tutto, essere dovunque, finirò per perdermi qualcosa, ma ne riceverò traccia, testimonianza, su Twitter, Instagram, Snapchat, Facebook.
FoMO significa che… chi resta fuori è perduto.
Non soltanto; la versione social dell’attività che sacrifico, più ancora dell’attività stessa, è in grado di acuire quel senso di esclusione tormentosa, perché non esprime un resoconto realistico, piuttosto ne propone sempre una narrazione clamorosa, rutilante. Se l’imperativo è l’esposizione, in ogni momento della giornata, dovunque, a qualsiasi condizione, e vivere diventa un’operazione pubblicitaria, ovvero saper vendere con efficacia la propria immagine di sé… forse allora ci si ammala di FoMO. Allora, ma non solo.
In Italia non esistono ancora ricerche sulla FoMO, e la cosa risulta sorprendente, perché se è vero che il fenomeno ha conosciuto la sua più rilevante deflagrazione negli Stati Uniti, oggi dilaga con proporzione preoccupante anche nel nostro paese. Su Twitter, molti sono i giovani che riconoscono di soffrire di tristezza o depressione a trascorrere una serata a casa, lontani dagli amici e dall’opportunità di condivisione virtuale, che nel frattempo impazza per mano di quegli stessi amici a colpi di hashtag, documenti fotografici o video. Mentre tutti sono fuori a divertirsi, rimanere a casa può essere spiacevole. Soprattutto se il social presentifica, con brutale immediatezza, l’immagine di divertimenti lontani e inaccessibili.
Francesco Rizzo