Posso perdonarmi le mie debolezze?
Molti pazienti raccontano di vivere una sorta di doppia esistenza.
La prima è quella “dichiarata”, o si potrebbe dire… sbandierata.
È, in altri termini, la vita che si ritiene possa piacere agli altri:
«Serata Netflix e pantofole? Per me non esiste, voglio uscire e divertirmi!
«Esigo per me il lavoro dei miei sogni, non mi accontenterò di un compromesso.»
«Quando sono con le persone, parlo soltanto di cose positive e tengo per me le emozioni negative.»
Quelli elencati sono soltanto alcuni esempi che riguardano il senso di pressione a mostrarsi sempre vincenti e brillanti con tutti.
Generalmente a tutti piace fare una bella figura con chi sta intorno.
C’è però una seconda esistenza, quella più privata.
Ed è una vita diametralmente opposta a quella “pennellata” negli esempi precedenti.
Magari è una vita fatta di comodità, talvolta persino di aree di comfort zone.
Eppure, si tratta di una vita e di abitudini a cui si fa fatica a dare una forma di dignità.
Vivere senza andare a 100 all’ora, o ritagliarsi dei momenti di solitudine, per qualcuno sono debolezze pressoché imperdonabili.
Si tratta, quindi, di una vita privata, segreta.
Nelle occasioni sociali ci si sforza di apparire vitali, perfetti.
Quando si è da soli, l’unico desiderio sembra essere quello di chiudere la porta nei confronti dell’esterno e sparire.
Per respirare un po’.
È davvero così strano desiderare cose diverse dagli altri?
Il senso di pressione a mostrarsi perfetti agli occhi altrui ha un’origine che al contempo è esterna e interna.
L’origine esterna è quella che ha a che fare con il giudizio degli altri, molto spesso ipotizzato e temuto, piuttosto che reale:
«Le persone che piacciono agli altri sono sempre attive e dinamiche. Se voglio piacere, devo essere anch’io così.»
L’origine interna è più complessa da definire.
Riguarda le caratteristiche personali che “costringono” a vedere negli altri una forma di costante giudizio.
Una di queste caratteristiche è senz’altro una forma di severità autoimposta notevolmente accentuata.
Molte persone sentono come impossibile la prospettiva di dire a se stesso ho dei difetti.
Fermo restando che attribuirsi dei difetti, invece che delle caratteristiche, inclinazioni, attitudini… è già di per sé indicativo di questa severità.
La percezione di chi non si concede debolezze è quella che ammettere le proprie fragilità significhi esporsi al rifiuto degli altri.
La paura del rifiuto da parte degli altri, del resto, è la naturale conseguenza della paura del giudizio.
Accettare le proprie debolezze
È necessario ribadire un concetto precedentemente solo accennato.
In questo caso, parlare di difetti, o debolezze, non è del tutto corretto.
Al contrario, è più giusto esprimersi in termini di caratteristiche individuali.
Sembra una differenza sottile ma non lo è: già solo potersi riconoscere dei tratti caratteriali invece che dei veri e propri difetti è un passaggio di benessere fondamentale.
Un lavoro di psicoterapia, intrapreso con l’obiettivo di riconciliare se stessi alle proprie caratteristiche, procede proprio in questa direzione.
In che modo?
Attraverso, innanzitutto, un ascolto paziente di quella voce interiore che all’esterno non trova spazio d’espressione.
È la voce della tranquillità negata, si potrebbe dire.
Un’espressione di se stessi che ha diritto di cittadinanza tanto quanto la propensione all’attività continua.
Altro che debolezza!
Allo stesso tempo, la psicoterapia permette d’individuare le cause profonde che sorreggono la paura del giudizio altrui.
La trasformazione di se stessi non può prescindere da un’analisi di queste cause interiori.
Poter restituire dignità alle proprie supposte debolezze è un obiettivo di vita fondamentale, perché consente di concedersi la fragilità in un mondo che impone, di continuo, la performatività.
Non si tratta di diventare persone diverse, quanto di integrare dentro di sé tutte le varie persone che si è.
Francesco Rizzo
Psicologo Psicoterapeuta Padova