Adolescenza e autolesionismo
Farsi del male… per stare bene.
La spiegazione dell’autolesionismo in adolescenza potrebbe ridursi a questa frase: ci si fa del male nel tentativo di stare emotivamente meglio.
L’autolesionismo, in effetti, è il danneggiamento del proprio corpo attraverso lesioni autoinflitte, dirette e intenzionali.
Si possono suddividere le condotte di autolesionismo in tre macro-categorie:
- le condotte autolesive vere e proprie, che sono il tagliarsi, il bruciarsi (ad es. con la sigaretta), o il colpirsi con oggetti contundenti;
- le condotte di auto-avvelenamento, come l’overdose di droghe o l’ingestione di sostanze tossiche;
- le condotte di auto-danno, come la sessualità promiscua e il gioco d’azzardo.
Solitamente, in adolescenza l’autolesionismo è stereotipico, ovvero, è un comportamento ripetuto nel tempo e con una certa regolarità.
Pur essendo preoccupanti, le ferite autoinflitte di solito non mettono a rischio la vita nell’immediato. Con relativa facilità, l’adolescente è in grado di medicarle, quando si tratta di lesioni corporee, e in ogni caso di nasconderle.
Per molto tempo, l’autolesionismo in adolescenza – detto anche self-cutting, che in inglese vale a dire circa autotagliarsi – è stato considerato un fenomeno limitato a una fascia ristretta di popolazione adolescenziale.
Le statistiche più recenti, al contrario, dimostrano che l’autolesionismo è una tendenza sempre più in voga tra i giovani. Come mai?
E cosa vuol dire che l’adolescente prova a star meglio attraverso il self-cutting?
Dolore del corpo e dolore della mente
Per approfondire il tema dell’autolesionismo in adolescenza, si può partire da questa semplice asserzione:
Sentire male nel corpo significa non sentirlo dentro di sé.
È questo il motivo principale che spinge un adolescente a praticare l’autolesionismo.
Il self-cutting è come uno sfogo: aprirsi la pelle fa sentire che il dolore emotivo può “sgorgare” fuori, come se l’emorragia di sangue potesse espellere anche la sofferenza interiore.
Ottenere sollievo da sensazioni negative è l’obiettivo principale di chi pratica autolesionismo.
È evidente che si tratta di una convinzione illusoria: provocarsi dolore fisico non può essere una strategia efficace per spegnere il dolore avvertito dentro se stessi.
Autolesionismo: perché riguarda proprio l’adolescenza?
Diversamente dall’adulto, l’adolescente fa più fatica ad utilizzare il pensiero – si potrebbe dire che fa più fatica a pazientare – come strategia di regolazione delle proprie emozioni.
L’età adulta, in effetti, porta a compimento la capacità di razionalizzare le proprie esperienze di vita, e mantenere in equilibrio i connotati cognitivi e quelli emotivi.
In adolescenza, questa capacità è ancora work in progress, e l’adolescente è molto più spinto dall’impulso immediato.
È per questo motivo che il ricorso all’autolesionismo finisce per diventare una modalità di gestione della propria sofferenza così diffusa.
L’autolesionismo trasforma subito, senza troppe mediazioni, un dolore emozionale in un dolore fisico.
Gestire il malessere psicologico, per l’adolescente, suona come una missione impossibile.
Gestire il malessere fisico è un’esperienza non solo sopportabile, ma che addirittura dà all’adolescente la sensazione di avere il controllo della situazione.
Un altro aspetto rilevante che contraddistingue l’autolesionismo in adolescenza è il suo significato di comunicazione verso l’esterno, in particolare verso i genitori.
Prima o poi, il self-cutting smette di passare inosservato. Basta una manica che inavvertitamente si tira su…
Quella che a prima vista può sembrare una coincidenza, o una svista dell’adolescente, nasconde in realtà il desiderio del ragazzo di farsi notare, o per meglio dire, di far notare la sua sofferenza.
Quando questo succede, è un segnale da cogliere al volo: significa che l’adolescente comincia, a modo suo, a prendere in considerazione l’idea di essere aiutato.
La psicoterapia è una risposta valida a questo bisogno di assistenza.
In un primo momento della cura, la psicoterapia rappresenta
- uno spazio di accoglimento terzo della sofferenza del paziente adolescente: oltre alla sua mente e al suo corpo, la stanza di terapia diventa un luogo dove “depositare” il malessere senza dover passare per modalità estreme;
- uno spazio di pensiero, o per meglio dire, di supporto al pensiero dell’adolescente, che può cominciare a familiarizzare con la possibilità di riflettere sul proprio dolore, prima di dover passare all’atto autolesionistico;
- uno spazio di individuazione delle cause profonde che generano la sofferenza psicologica del ragazzo, a cui egli risponde praticandosi dolore fisico.
Una volta, un paziente adolescente mi ha descritto l’autolesionismo come un tunnel:
«una volta imboccato, non riesci più a tornare indietro.»
Questo succede perché è difficile rinunciare alle modalità più familiari di gestione delle proprie emozioni (e questo non vale solo per l’adolescenza…).
L’aiuto di un professionista, in grado contemporaneamente di accogliere il dolore qui ed ora, ma anche di lavorare sulle ragioni profonde che lo scatenano, diventa un passaggio fondamentale per uscire da questo tunnel.
Francesco Rizzo
Psicologo Psicoterapeuta Padova