Siamo una società iper-competitiva (e per questo proviamo ansia)
Dappertutto, in maniera più o meno diretta, l’imperativo sembra sempre e solo:
VINCERE!
Un monito certamente fonte di ansia (e competizione costante) che si può “spezzettare” in tanti micro-messaggi:
PRIMEGGIA!
OTTIENI SEMPRE IL MEGLIO!
PUNTA SEMPRE AL MASSIMO!
NON ACCONTENTARTI MAI!
Eppure, non tutti amano sentirsi in gara.
In una costante, infinita competizione.
C’è qualcuno che sente di poter rendere solo se caricato da situazioni di pressione, solo se orientato su obiettivi sempre più complessi.
Per altri, alzare l’asticella non è affatto sinonimo di felicità; semmai, è proprio sinonimo di ansia.
Cosa fa la differenza tra chi vuole vincere e chi… si accontenta?
Non tutti hanno lo stesso rapporto con il tema della competitività (e dell’ansia che ne può derivare).
Un ruolo importante lo giocano le esperienze accumulate nel corso degli anni, a partire da quelle con i propri genitori.
Un esempio?
Un papà e/o una mamma molto ambiziosi, che costantemente provano a orientare le energie dei figli sulla competizione (e sulla vittoria), possono innescare due tipi di comportamento molto diverso:
- un’identificazione con quel modello competitivo, che porterà il figlio a cercare occasioni in cui misurare il proprio valore, e ad autovalutarsi solo ed esclusivamente per quello che sente di aver ottenuto oppure perso (un partner, un’occasione di lavoro, e così via);
- una controidentificazione con quel modello competitivo, che al contrario porterà il figlio a rinunciare a tutte le occasioni in cui sarebbe il caso di mettersi in gioco: della serie mi volete così? E allora, io divento colì…
Si tratta, naturalmente, di processi che avvengono a un livello inconscio.
Del resto, le sfide o le si affronta, o ci si allontana.
In generale, si può dire che un gusto “sano” per la competizione non è un atteggiamento da condannare, anzi: è al centro della realizzazione dei propri obiettivi, dei propri successi in campo professionale, sociale e affettivo.
Tuttavia, se la vittoria è tutto ciò che conta… il rischio è duplice:
- la si vuole centrare a ogni costo… anche a quello di essere sleali, di danneggiare altre persone;
- si sta particolarmente male quando non la si centra; la “sconfitta” è percepita come un intollerabile fallimento personale.
Per contro, la rinuncia preventiva a obiettivi ambiziosi per paura di gettarsi nella mischia, per ansia da prestazione, è altrettanto fonte di problemi: non per gli altri, certo, ma per la persona stessa, che avrà sempre la sensazione di starsi perdendo qualcosa… ma senza avere la forza per cambiare questo stato di cose.
Come godersi la competizione senza ansia da prestazione?
L’ansia da prestazione è una sorta di blocco preventivo.
È uno stato d’animo che mette in scacco prima ancora di tentare.
L’ansia da prestazione è una situazione molto complessa, e ha cause varie e articolate.
Ma qualcosa la possiamo dire: l’ansia da prestazione è alimentata da un difetto di autostima.
Per una persona che avverte dentro di sé la dolorosa sensazione di essere inferiore agli altri, non c’è niente di peggio che l’idea di “gettarsi nella mischia”.
Farlo, significa entrare in un confronto – in una competizione, per l’appunto – che lo vedrà “sicuramente” perdente.
O perlomeno, questo è quello che pensa una persona con problemi di autostima…
Il pensiero che si impone allora è più o meno questo:
«Chi me lo fa fare? È meglio che me ne sto nel mio guscio…»
Il difetto di autostima alla base dell’ansia da prestazione varia da persona a persona.
Non è possibile innalzare la propria autostima con degli esercizi, o con una lista di step; si diffidi di chi promette soluzioni rapide e a passaggi scanditi.
Quello che serve è individuare la causa profonda del difetto di autostima.
La ragione che scatena l’ansia da prestazione e il conseguente atteggiamento di resa, quello che porta a pensare: «meglio che non mi cimento, ne uscirei con le ossa rotte…».
Si tratta di una ragione che affonda le radici nella profondità della persona e della sua storia di vita.
Per questo non è possibile intervenirvi con un set di “regolette” uguali per tutti.
La psicoterapia può progressivamente portare alla luce queste cause profonde, e da lì, riannodare il filo della storia personale.
Può, insomma, riequilibrare l’immagine di sé, che non significa dire
sono il migliore del mondo e devo vincere tutto!
bensì
anch’io valgo.
C’è poi l’altro grande tema dell’ansia da prestazione (ma anche dell’iper-competitività): la paura della sconfitta.
Come l’ansia da prestazione, anche la paura della sconfitta non nasce da un giorno all’altro.
C’è, al contrario, qualcosa di molto profondo che porta una persona a pensare:
«se perdo, è la dimostrazione che sono un totale fallimento».
E come detto per l’ansia da prestazione, non si tratta di atteggiamenti e credenze personali che si possono stravolgere dall’oggi al domani, magari semplicemente pronunciando qualche formuletta davanti allo specchio.
Francesco Rizzo
Psicologo Psicoterapeuta Padova